venerdì 16 gennaio 2015

S.Pietro: ricordi di Sandro Talamazzini

Per chi, come me, è nato nel rione di Porta Po ed ha percorso, per anni interi, le strade, i vicoli e le piazze che fanno corona alla superba parrocchiale di S. Pietro o a quella più modesta, ma altrettanto importante sul piano storico e architettonico, di S. Lucia, non può fare a meno di associare, nel ricordo, cose e persone e non soltanto sul piano emozionale. 
Il tempo abbraccia, con un disegno che va oltre la nostra limitata conoscenza, l’intreccio umano e lo sì avverte ad ogni passo.
Tempo fa, il rione di Porta Po ospitava, ben distinte, diverse categorie sociali: in via del Sale, ad esempio, abitavano e lavoravano, soprattutto, carrettierì, lavandaie, operai della ceramica «Frazzi» e renaioli, quelli, tanto per intenderci, che andavano a cavare dal Po, solo con la forza delle loro braccia, sabbia e ghiaia per l’edilizia. 
Strada polverosa, con diverse osterie e alcune botteghe artigiane, tra cui il maniscalco e il ramaio: le prime, offrivano al duro lavoro quotidiano un posto di ristoro e, nello stesso tempo, d’incontro; le seconde, artigiani espertissimi, ultimi rappresentanti di un impegno che le macchine avrebbero cancellato col tempo, almeno in città. 
Strada, dove il camminare a piedi o l’andare in bicicletta diventava, spesso, motivo d’incontro o pretesto per una chiacchierata. 
Sul viale Po abitava, invece, gente della media e alta borghesia, composta, per la maggior parte, da impiegati e professionisti i cui figli, frequentando la stessa Scuola Elementare, «G. B. Plasio’, per i maschi e «Alessandro Capra» per le femmine, mescolavano, ma non troppo, abitudini e modi di pensare con quelli venuti, da altre strade in primo luogo, da via del Sale.
Anche la lingua parlata era diversa: il dialetto, di quest’ultimi, l’italiano, un po’ forbito, degli altri.
C’è da dire, comunque, che non essendo ancora nata la parrocchia di Cristo Re, con la relativa chiesa, la gente confluiva tutta nella Chiesa Madre di S. Pietro, anche perché vi era legata dai battesimi, dalle cresime, dalle prime comunioni e dai funerali. 
Via Giordano era abitata, in parte, da operai e in parte da impiegati; aveva più d’una forneria, negozi di alimentari e qualche fruttivendolo. 
Frutta e verdura venivano vendute anche sui carretti, dagli ambulantì, come pure il latte e il pesce fresco, magnificati con personalissimi richiami vocali.
Immagini sbiadite dal tempo ma che diventano nitide e vive quando vengono trasferite nella chiesa parrocchiale, tanto ricca d’altari e dipinti che forse ben pochi, almeno allora, conoscevano sul piano dell’arte. 
Nella parrocchiale, la fede diventava, specie nelle grandi solennità del Natale e della Pasqua, sinonimo di vita e qui, anche sul sagrato, nascevano amicizie e affetti che duravano, spesso, la vita intera,
C’era, poi, la catechesi della domenica pomeriggio ed allora i banchi si riempivano di fedeli. 
Per noi ragazzi, che arrivavamo dall’oratorio «Pei nostri fanciulli» dove, molto saggiamente, il gioco aveva avuto grande spazio, il luogo di raccolta era il coro dietro l’altar maggiore e da lì seguivamo la benedizione, un rito che, nella mia memoria, si mescola ancora col viso dei chierichetti, l’odor dell’incenso, le fiammelle dei ceri e il suono delle campane.
Allora, nella mia famiglia almeno, si dava molto tempo alla lettura; la gente gustava il piacere di fermarsi per la. strada a parlare, a passare le notizie, più o meno importanti, ma sempre con l’entusiasmo di chi vuoi far partecipi gli altri delle proprie vicende e di quello che sa. 
Causa il lavoro di mio padre, tipografo-compositore di notte presso il quotidiano locale, avevamo sempre qualcosa in più da dire ai vicini di casa, ma chi sapeva veramente dialogare era una donna, ancora vivente, di nome Maria che, in tal caso, assumeva un ruolo assai importante, quasì d’ intrattenimento,
Lo scambio più fitto di notizie si faceva comunque nella bottega del barbìere come succede, anche ai nostri giorni, in certe località del sud Italia, non ancora stravolte dal progresso.
Ma quella dove le notizie si urlavano erano le osterie e se non ebbi mai il desiderio di frequentarle, mi giungevano, tuttavia, dalle finestre e dalle porte, sempre spalancate nella buona stagione, discussioni interminabili, spesso disorganiche, con alti e bassi improvvisi, dovuti in parte agli argomenti trattati o, meglio ancora, al vino tracannato.
C’era poi un enorme divario tra le scritte di un tempo, fatte col gesso bianco della scuola sui muri delle case, al massimo «oca chi legge» o «scemo chi guarda» o «W Coppi, W Bartali» o «W me», e le attuali sconcezze a colori, impresse dalle bombolette spray.
È vero che il ricambio degli intonaci murali non era, allora, tanto frequente come ai giorni nostri ed il richiamo alla pittura era meno forte, ma era pur vero che c’era, nella maggior parte della gente, anche quella giovane, un senso di rispetto verso cose e persone, che ora non c’è più.
Porta Po, e più precisamente il piazzale, diventava, al tempo della fiera che culminava nella gran festa del 29 giugno, punto di riferimento per le giostre, le bancarelle, i tiri a segno, i baracconi con i richiami più strani, tra cui la donna-cannone, il circuito della morte, gli specchi deformanti e il castello incantato. 
In qualche osteria s’allestìva la baléera e i renaioli, per l’occasione, indossavano il vestito più bello, rimasto per mesi interi nell’armadio, sotto naftalina. 
Allora, anche la strada che portava alla parrocchia, l’attuale via Cesari, era colma di venditori di stoffe e di bijotteria varia e tanti entravano in chiesa solo per toccare i piedi alla statua del primo Apostolo anche lui, per l’occasione, con paramenti nuovi. 
Nella chiesa era un andare e venire continuo che cessava solo alla elevazione e s’attutiva durante l’omelia, ma il richiamo all’esterno era sempre molto forte, specie per gente che veniva in gran parte dalla campagna e voleva gustarsi, almeno per un giorno, quel lembo di città che, a due passi dalla cattedrale, sembrava facesse parte del loro mondo, quello dei campi, appunto.
Ed è ancora così: per chi sale sul Torrazzo e, giunto alla base della cuspide, volge lo sguardo verso sud-ovest, s’accorge subito quanto Porta Po e la sua bellissima chiesa parrocchiale siano prossimi alla campagna dove il corso sinuoso del grande fiume appare un inserto più che un confìne. S’accorge, soprattutto, d’essere nato e vissuto in una terra che è armonia di spazi e di colori e se poi c’è un po’ di cultura, la sente vicina anche nella storia, fatta dagli uomini, anche i più semplici e sconosciuti, che quì hanno trascorso la loro vita, faticando, ridendo e piangendo, nè più nè meno come fanno gli uomini in ogni parte del mondo, anche ai nostri giorni: forse più ricchi dei primi, certamente meno felici.

"Un grappolo di ricordi" del quartiere di S. Pietro, preso dal numero speciale di "Sulla Barca di Pietro" del 1992 a firma dell'indimenticato Sandro Talamazzini.
Sandro Talamazzini nacque a Cremona nel 1922, fu un uomo poliedrico: regista, fotografo, insegnante, documentarista e scrittore per bambini, giornalista, cultore delle tradizioni popolari. Amava definirsi "il ragazzo di via del Sale", una via di un quartiere polare di Cremona dove era cresciuto.
Paladino della cultura e della civiltà contadina, scrittore, regista, educatore, autore di servizi televisivi molto originali, con immagini suggestive e protagonisti affascinanti.


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